Da Padova a Torino e ritorno…per vendere l’anima cantando? Con Sant’Antonio dietro la porta, e incontri con Santi e Briganti…E già, e già…questo viaggio comincia subito tra magìa, mostruosità e incontri di Cristo in croce, già alla stazione di Porta Nuova, prima di partire, ci sono bandiere dei sindacati dei ferrovieri, una sigla mai vista, ma che fa capo all’Orsa, chiedo a un ferroviere, “è stato ammazzato un operatore della pulizia dei treni”, sembra sia stato un barbone, lo ha accoltellato, mi dice il compagno ferroviere…E c’è umido a Torino oggi, parto col maglioncino, evito di portare la giacchetta di pile, anche perché fino a fine gennaio o quasi sono andato avanti con la sciallina iraniana, figuriamoci ora che è fine aprile, allora mi sento più leggero, e sul treno, un Intercity, io non ho il biglietto, mi sistemo in seconda classe, poi mi sposto nella carrozza di prima classe…all’inizio, al primo posto sulla mia destra, c’è una donna che avevo visto prima di salire, mi sembrava un volto familiare, le chiedo se è possibile che io l’abbia già vista, o che lei mi abbia già visto, a forza di viaggiare in certi treni, o comunque bazzicando a Torino, facendo ritratti per strada, sai com’è?, allora lei mi dice “Forse mi hai visto sul giornale o in televisione?”, ha un viso pulito, vagamente sensuale, ma di una sensualità limpida, occhi chiari e belli, “Ma lei è Giuliana Sgrena?”, “Sì”, e allora mi siedo davanti a lei. Cominciamo a chiacchierare. Io non ho il biglietto neanche per la seconda, figuriamoci per la prima. Vado a prendere i bagagli e la chitarra e li porto lì, sopra le testa di Giuliana Sgrena. Poi chiacchieriamo un po’. Mi dice che è stata a Bussoleno e sta andando a Bassanod del Grappa per presentare il suo ultimo libro Ritorno in Iraq (che forse si scrive con la “K”).
Poi, dopo un po’, viene una signora che ha prenotato. Quindi io mi devo alzare. Torno al mio vagone al mio scompartimento semideserti. Intanto ho i bagagli al sicuro sotto la testa e lo sguardo di Giuliana. Arriviamo a Milano, io non hoa vuto modo di incontrare il capotreno e non posso fare il biglietto né posso parlare col capo treno delle recenti trattativre sindacali, scioperi, vertenze dei ferrovieri. A Milano scendiamo insieme, io e Giuliana. In teoria potremmo prendere lo stesso treno per Verona, ad Alta Velocità, ma io mi sento già graziato, meglio autodisciplinarsi anche nella pirateria, o clandestinità, o ammutinamento ferroviarii. Quindi preferisco prendere un treno regionale. Sul regionale per Verona vedo una giovane ragazza e mi attirano i suoi capelli, la faccia non la vedo bene, ha la testa un po’ inclinata, credo stia mangiando da una schiscietta. Mi siedo di fronte a lei. Confermo il sospetto: sta mangiando. Lei va a Brescia. Si chiama Elisa. Come l’unica donna di Brescia che ho conosciuto negli ultimi cinque anni. Le dico di questa coincidenza. Poi le parlo di Ignazio Buttitta. E lei mi dice che lo conosce! Incredibile! Una ragazza nata negli anni ‘80 a Brescia, che conosce Ignazio Buttitta. Neanche chi è nato negli anni ‘70 in Sicilia lo conosce, o quasi! Ma Brescia è avanti, infatti l’anno scorso quando facevo ritratti a Sestri Levante se era per i milanesi non vendevo neanche un ritratto, me li compravano i bresciani e quelli di Lecco!
Poi chiedo a Elisa di raccontarle, riassumendola, la vita di Buttitta. Mi serve per il concerto che farò il 30 alla mela di Newton a Padova. E lei mi dice che va bene. Dico che Buttitta è nato nel 1899, e lei, Elisa, irrompe con un “Ah, era uno dei ragazzi del ‘99”, e io non so chi erano, e lei sì! Due a zero! Le dico che lei è troppo preparata per la sua età, quasi mi commuovo. Lei mi dice “ma solo due cose”. Poi io miallontano che arriva il controllore. Poi, più in là il controllore mi ferma. Mi fa un biglietto da Chiari a Verona, 9 euro, lui è dell’Orsa, io pure! Torno al posto, racconto a Elisa l’accaduto, poi lei scende, a invito per lo spettacolo a Milano del 12 maggio, Milano chim era, forse viene, forse no, poi per mail mi dice che magari viene e dorme dal suo ex coinquilino, io le dico che può dormire da mia sorella o da mio fratello.
Il ragazzo che cantava come Dio Gaetano
A Padova, dalla stazione vado verso il centro, per incontrarmi con Alvise, che mi ospiterà in questi giorni.
In centro, camminando, a un certo punto vedo un ragazzo che suona la chitarra e canta. Poche persone lo ascoltano, praticamente nessuno. Un pazzo, mi dico. Mi avvicino. La gente passa davanti al ragazzo, indifferente, o quasi. Due persone lo ascoltano, ma da lontano. Mi fermo a pochi passi da lui. Appoggio i bagagli a un grande vaso che c’è dall’altra parte della strada. Dentro il vaso c’è una palma. Fa caldo oggi a Padova, da torino son partito che era umido, già a Milano il cielo era azzurro e dopo Milano il sole splendeva e riscaldava parecchio l’aria e le cose. Mi appoggio e mi riparo dal sole sotto la palma. Il tipo con il pizzetto, cappelli ricci scarruffati, un po’ alla Caparezza, ha una chitarra metallizzata acustica. Canta e suona brani suoi, ogni tanto si ferma e spiega brevemente l’origine della canzone. Mi incanta. Anche altre tre o quattro persone rimangono a guardare e ad ascoltare. Dopo un po’ canta Escluso il cane di Rino Gaetano. Vorrei dargli cinque euro. Gliene do due. Nella custodia della chitarra ci sono poche monete, una da due euro una o due da un euro e qualche altra da cinquanta centesimi e altre minutaglie. Il crimine più grande della modernità è la guerra all’economia di sussistenza, all’arte di vivere in strada, penso ricordando le righe del libro che ho iniziato a leggere prima di partire, Il genere e il sesso di Ivan Illich. A un certo punto, dopo un po’ di canzoni che incantano ma applaudo solo io, che nel frattempo mi sono avvicinato e seduto vicino a lui, arriva una ragazzina, una frega come direbbero a Perugia, una gagna a Torino, e dice qualcosa a Jacopo (così si chiama il chitarrista cantante). Non capisco cosa vuole. Mi avvicino. Capisco che gli ha chiesto di smettere di cantare e suonare. Dico alla ragazza che se si si disturba può allontanarsi. Lei, che insieme da altri cinque o dieci della sua età (15-20 anni al massimo) sonos eduti a quindici metrti di distanza. Mi dice che è svenuta e si disturba. Io, coglione, le chiedo anche scusa, per non aver capito. Subito dopo mi rendo conto della beffa. Sono mafiosetti giovanissimi padovani, che per gioco hanno deciso di rompere i coglioni a Jacopo. Li guardo da lontano. Sono tutti seduti a quindici o venti metri da noi. Non c’è motivo razionale per chiedere a Jacopo di smettere. Mi viene da prenderli a schiaffi e pedate nel culo. Non ho i coglioni per farlo. E trovo nei bagagli e nella chitarra una scusa per giustificarmi. Jacopo dice di lasciar perdere. Effettivamente, è peggio la mafia di questi gagni di merda, o l’indifferenza della gente che passa più o meno velocemente? E’ peggio la mafia o la modernità?
Sant’Antonio profumo di Giglio
Eccoci a Padova. Alvise abita a due passi dalla basilica. L’indomani, cioè, il mercoledì sera faccio lo spettacolo teatrale ai Carichi sospesi. Uno spazio teatrale essenziale, molto bello. Ma c’è un problema. Ho lasciato il telefonino a casa perché ultimamente mi sto disintossicando dalla telefonino mania. Peccato però che lascio anche il numero di Alvise. Allo spettacolo vengono quattro persone. Due coppie. Una di Padova, nata poco prima degli anni ‘50. Affettuosissimi. L’altra coppia è del sud, almeno lei, di Ragusa. Nati alla fine degli anni ‘70 o ai primi degli ‘80. In realtà non sono una coppia, sono due amici. Questo lo scoprirò dopo. Vado via con loro dal teatro, verso Sant’Antonio. Lei ha la bicicletta, o ce l’ha più avanti, a un certo punto, non ricordo bene. Padova è la terza città ciclabile d’Italia, dopo Ferrara e Ravenna, questo me lo dice Alvise, ma a me sembra che ci siano più biciclette e pedofili, anzi, ciclofili, a Padova che a Ferrara. A Ravenna non sono stato, a parte più di trent’anni fa che avevo sei anni e non mi ricordo niente o quasi, comunque non ricordo di aver visto bicicletta più di trent’anni fa a Ravenna. Monica e il suo amico mi lasciano alla basilica di Sant’Antonio. Io non son sicuro che ritroverò la strada per arrivare alla casa di Alvise. Mi ricordo che si attraversa un ponticello, poi si vedrà. La casa la trovo,trovo anche la porta, ma il campanello…non so quale sia, cioè il citofono. Provo a suonare due o tre nomi, ma è già l’una del mattino, evito di insistere. Fortunatamente mi ero fatto lasciare il numero di telefonino di Monica. E la chiamo. Ma non ho telefonino, le cabine ci sono ma…lontane. Due giovani passeggiatori notturni con cane mi prestano un telefonino. Monica viene a prendermi col fidanzato che non è quello che era con lei prima. Mi vengono a prendere in macchina. Dormo nel divano di casa loro. Un divano ampio. Abitano in un pied a terre con altri due o tre studenti lavoratori europei, una di Lecce, uno albanese e un altro non me lo ricordo. L’indomani vado a casa di Alvise. Trovo la fidanzata di Alvise, Anairis, franco colombiana, è carinissima, meno male che c’è lei a casa perché se no dovevo stare un’altra mezza giornata con la chitarra e lo zainetto dietro. Esco di casa nel sole, ormai è quasi ora di pranzo, è giovedì. Devo portare il diario che mia madre ha scritto tredici anni fa a Lourdes. Le avevo regalato un bloknotes per scrivere un diario quotidiano durante i tre mesi di lavoro stagionale che la attendevano. Era il 1997. Lo aveva scritto. Lo avevamo stampato e spedito all’Archivio Diaristico Nazionale di Città della Pieve, vicino Arezzo. Quello che ora è stato celebrato da un libro scritto da Mario Perrotta e lo trovate su internet e c’è anche il video. Mario Perrotta è uno dei pochi attori e autori di teatro di narrazione che ho visto dal vivo. E’ anche colpa sua se mi sono messo a scrivere e a raccontare i miei monologhi. Lui non mi ha detto niente. Io ho visto lui e mi sono sbloccato. Magari lo avrei fatto anche senza vedere lui. Comunque questo diario lo volevo portare alla casa editrice Messagero di Sant’Antonio. E’ in una via adiacente alla Basilica. A due passi da casa di Alvise. Ci sono andato il venerdì mattina. Il direttore è sceso per incontrarmi. Le ho fatto vedere il diario. E’ stato onesto e schietto. Mi ha detto le stesse cose che mi dicevano i primi editori ai quali, dieci e più anni fa, parlavo del mio racconto di venticinque pagine, Piccoli buchi nel vento. Un racconto di un viaggio in autostop da Milano a Barcellona con i camion, in autostop. Mi dicevano che 25 pagine erano poche. Anche questo mi dice la stessa cosa per il diario di mia madre che è di 23 pagine. Un diario vivo, vero, però se lei sviluppa alcuni spunti può diventare più lungo, e Piero Bogon, il responsabile del coordinamento redazionale, come c’è scritto nel biglietto da visita, ecco, Pierino Bogon mi ha detto che entro fine anno speriamo di poterlo leggere. Nel frattempo gli dico posso fargli vedere un mio manoscritto, anche quello è un diario di un viaggio, una passeggiata da Siena a Roma. Mi dice che lo aspetta. Sta mattina l’ho spedito. Ma prima di arrivare alla casa editrice, faccio una pausa pranzo. Compro un po’ di roba da mangiare in un negozio di gastronomia, dietro la Basilica, tra la casa di Alvise e la Basilica. C’è un uomo sulla sessantina nel negozio. Anche lui compra qualcosa. Ma è dietro di me. Vedo che ogni tanto mi guarda, svagatamente. Esco dal negozio e mi avvio nel sole di questo giovedì, verso la Basilica. Dietro di me c’è l’uomo sull sessantina. Mi chiede da dove vengo. I miei sandali, piedi nudi e barba lunga possono far pensare benissimo a un estremo sud, arabia, aghanistan. “Da Torino”, rispondo, per spiazzarlo. “Sei studente?”, “No, lavoro, devo fare due spettacoli qui a Padova”. “Ah, sei un attore?”, “Un narratore, all’antica”, dico, e devo ammettere che questa la posso mettere in qualche lettera di presentazione perché calza bene. Poi gli chiedo come si chiama. Marco, e tu? Angelo. Ah, come l’Angelo che c’è lassù, mi dice indicando alla nostra sinistra, sopra la Basilica, sopra un pinnacolo, se si chiama così, ma io mi ricordo del libro Il diavolo sul pinnacolo di David Maria Turoldo, un libro che avevo trovato anni addietro nella biblioteca di mia madre.
“C’è un Angelo d’oro”, mi dice, “Lassù, e gira col vento. E ci da il cambiamento del vento, del clima”.
Poi mi chiede se sono sposato. Io dico di no e lui “Male, nella Bibbia c’è scritto “Guai all’uomo solo!”, “Ma Gesù non era single?”, chiedo io e mi scappa una risata. “Sì, ma in un film si vede che con Maria Maddalena..”, dice lui, “Era sposato con Maria Maddalena?”, “No, no, tutte cazzate” fa lui, e io “Allora era single!”. Poi mi dice che a febbraio c’era una fila chilometrica davanti alla Basilica per vedere le spoglie di Sant’Antonio, come in questi giorni a Torino per vedere la Sindone. Poi mi invita a vedere uan mostra sulla Sindone che c’è dentro la Basilica, ma io dico “Ma se ce l’ho a Torino la Sindone, e sono andato a vederla con mia madre e mia zia che sono venute da Milano, e a mia madre le ha squillato il telefonino prima di entrare nella stanza della Sindone e a mia zia le ha squillato sotto la Sindone, che se lo sanno gli anarchici della Rete Nosindone le danno un premio”….
“Perché hai la barba lunga?”, mi chiede
“Perché a una mia fidandata, tanti anni fa, le piaceva, poi ci siamo lasciati e io me la sono fatta crescere”
“E lei dov’è ora?Non sta più con te?”
“No, non lo so dov’è”
“E adesso hai una fidanzata?”
“No, qualche incontro, qua e là…”
Lui mi guarda e sentenzia: “Tutto da lì di pende”, e indica la parte alta e centrale dei miei pantaloni.
Io mi guardo la patta dei pantaloni e dico “Ma in che senso?”
“Più ce l’hai grosso e più ti vengono dietro”
Ma come? E tutto il misticismo, Sant’Antonio profumo di giglio, la Sindone…
Si gira e se ne va verso il chiostro della Basilica. “Ma dove vai?”, chiedo.
“A mangiare”
“E dove?”
Mi indica una freccia, subito dopo l’entrata. C’è scritto Pic Nic.
“Vengo anch’io”, gli dico, che intanto avevo cominciato a mangiare camminando.
“No, no”. Mi dice andandosene. Se questo è un uomo?^ Lo seguo dalla distanza. C’è un chisostro più piccolo collegato al Chiostro grande. Ci sono dei tavoli addossati alla parete. Dei tavoli di formica. Credo per appoggiarsi e mangiare. Io torno indietro a prendere zaino e altre piccole cose che avevo lasciato prima di entrare. Poi mi fermo nel chisotro grande. Ci sono delle panche di legno antico. Mi siedo e mangio. Anche questa è santità!
sabato 15 maggio 2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento